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LA MIA ETHIOPIA. Diario di viaggio

LA MIA ETHIOPIA. Diario di viaggio Heidi Zorzi

GIORNO 1: Partite!

Eccoci in una giornata di viaggio in questo accogliente paese.

Era notte inoltrata quando abbiamo completato la burocrazia per il visto e fuori ci aspettava Gadisa con il suo contagioso sorriso.

La città di Addis Abeba, cosparsa di piccole luci che delineavano palazzi e monumenti, mi ha richiamato le nostre decorazioni natalizie.

Strade deserte, solo piccoli gruppetti di cani randagi. Alcuni uomini lavoravano con secchi attorno ad una pozza. Tutto il resto appariva in un grande silenzio.

Abbiamo lasciato alle spalle le luci della città e ci siamo inoltrati in una stradina sconnessa. A tratti un fuoco acceso riscaldava alcune persone. Una di esse ci ha fatto segno di farci riconoscere ed ha aperto la stanga che chiude il quartiere della nostra guesthouse.

Siamo solo noi, in questo momento, all’interno della struttura ed i grandi spazi ci accolgono accompagnati dal benvenuto della cuoca.

Gadisa ci preannuncia che come primo giorno avremo bisogno di riposo e di riconnetterci con noi stessi.

In Africa la voce di Dio è molto forte – dice Gadisa – ed è necessario guardare dentro noi stessi per capire cosa possiamo dare e soprattutto aprire i nostri occhi, le orecchie, il cuore per imparare a ricevere.

Andiamo nei nostri letti emozionate dalle parole di Gadisa ma anche immensamente grate di essere qui.

GIORNO 2: Profumo di caffè

Una profumata colazione  ci ha dato il buongiorno: uova, frullato di avocado e limone, pane, marmellata, miele, burro di arachidi.

Abbiamo fatto una bella chiacchierata con Gadisa e poi con Cris e Alice un giretto a piedi nei dintorni della guesthouse.

Vicino a noi alcuni manovali lavorano ad una casa. Osserviamo le impalcature di legno, il battito continuo di un vecchio martello per demolire il cemento di un’armatura da rifare.

Più avanti sentiamo cadere un grosso ramo. Sorridiamo: il silenzioso lavoro di un seghetto non ci aveva preparato allo schianto.

La vita è silenziosa: poche le macchine che girano nel quartiere, a tratti una radio con della musica o lontane voci: sembrano preghiere.

La guesthouse è una delle attività che permettono al centro di Gadisa di sostenersi, di dare un letto, cibo, possibilità di fare sport e soprattutto di studiare ai ragazzi che vivono in strada perché senza genitori.

La luce negli occhi di Gadisa, quando racconta dei suoi ragazzi, è indescrivibile; come la luce che emana il suo sorriso quando ci racconta di quel bambino che gli ha chiesto se poteva chiamarlo “papà “.

Lui conosce bene quel senso di mancanza perché lui stesso ha vissuto in strada da quando i suoi genitori sono morti e lui aveva solo 4 anni.

Nel pomeriggio ci regalano i profumi e l’atmosfera serena della cerimonia del caffè.

Il caffè viene raccolto quando le bacche sono rosse e fatte seccare per alcune settimane.

È questo seme che viene tostato, pian pianino, facendoci annusare tutto il suo aroma finché il suo colore diventa brunito.

La cerimonia continua con la macinazione, la bollitura dell’acqua nella caratteristica brocca chiamata Gebèna, ed infine l’aggiunta del caffè.

Tutto si svolge a terra, seduti sui propri talloni o al massimo su piccoli sgabelli per essere proprio vicini ed assaporare al meglio profumo e gusto.

Nell’assaporare il momento torniamo alla storia di colui che era attratto dai colori sgargianti delle rose del giardino, ma che ne raggiunge la sostanza solo quando si ferma ad annusarle.

“Smell the rose” diventa il nostro mantra per ricordarci di fermarci, di rallentare, di ascoltarci.

Per Gadisa ci sono tre valori fondamentali che lo hanno sostenuto nel suo cammino:

  • Fede
  • Speranza, intesa come  una direzione verso cui andare
  • Amore

Ognuna di queste parole gli hanno permesso di realizzare il suo sogno e di portarlo avanti con azioni concrete che gli danno la possibilità, ogni giorno, di dare ai bambini, molto di più che un semplice tetto sopra la testa o un piatto caldo.

GIORNO 3: Coerenza

È ciò che vediamo nel primo incontro con i ragazzi del Centro.

Le parole di Gadisa, i suoi racconti, i suoi progetti, i suoi valori, li troviamo negli occhi dei ragazzi e nei loro modi di fare.

Diciannove ragazzi, tra i 7 ed i 17 anni, di entrambi i sessi, vivono con uno staff formato da insegnanti, cuoche, un contabile, come in una vera famiglia.

I grandi danno un’occhiata ai più piccoli e si sentono responsabili nel dare l’esempio nello studio, nello sport, ma anche nel trovare il modo di lasciare andare quello che erano prima di essere accolti da Gadisa.

Ho notato la loro gentilezza, la pazienza, la gratitudine.

Ho visto nei loro occhi il grande lavoro che fa Gadisa nel trasmettere la fiducia nei propri sogni e l’importanza dell’agire nella giusta direzione per renderli reali.

“Fà tutto ciò che puoi, con fede e amore, il resto è un dono del cielo”

All’entrata ci accoglie un ragazzino dagli occhi scurissimi; è bravissimo con le lingue ed ha una memoria eccezionale.

Gadisa è molto orgoglioso dei risultati dei suoi ragazzi; sa che solo attraverso l’eccellenza riusciranno, un domani, ad avere un buon lavoro e lui sta già lavorando ora, affinché abbiano delle buone raccomandazioni.

Gadisa sogna. Ed i suoi sogni sono grandi.

Ha visto come è riuscito fino ad ora ad avverare i suoi sogni e vuole ripetere ciò che ha già fatto.

Il primo step è di ampliare l’attuale centro per riuscire ad accogliere fino a 200 ragazzi.

Il secondo, per il quale è già in trattativa con il governo per il terreno, è di creare una struttura con abbastanza terra da coltivare per rendere il centro autosufficiente e poter accogliere fino a 1000 ragazzi!

Noi sogniamo con loro.♥️

GIORNO 4: Sentirsi impotenti

Finalmente il cielo è sgombro di nubi e la temperatura si fa più caldina.

L’altipiano  di Addis Abeba si trova a 2300 s.l.m e nonostante la vegetazione sia rigogliosa, le temperature, in assenza di sole e di notte, non sono “Africane”

Oggi ci siamo scontrate con le nostre emozioni più profonde e ci hanno fatto capire come il centro di Gadisa sia un’oasi di serenità.

La nostra mattinata si è svolta nel campo profughi Somalo che da sette anni il governo Etiope ha messo a disposizione per 400 persone cacciate dalle loro terre.

I Somali fanno parte della grande tribú africana degli Oromo di cui anche molti Etiopi fanno parte.

Per prima cosa abbiamo visitato le scuole: una struttura in metallo che contiene tre classi di bambini dai 4 ai 10 anni.

La scuola dura un paio d’ore perché i bambini, affamati, non resistono di più.

Manca cibo, materassi, vestiti, scarpe… Delle cose portate dall’Italia, donate da alcune persone, una parte verrà portata qui.

Alcuni dei ragazzi che abbiamo conosciuto nel centro di Gadisa, arrivano proprio da questo campo e si sentono dei privilegiati.

Le classi, ordinatamente, si svuotano e dopo aver parlato un po’ con la ragazza che dirige il centro, entriamo nel campo vero e proprio.

Mi tornano alla mente le descrizioni degli slum indiani di Shantaram, qui forse sono un po’ più fortunati perché le baracche non sono di materiali trovati per caso, ma di lamiera, quindi forse un po’ più asciutti.

La cosa che ci destabilizza è vedere che nonostante non abbiano le cose fondamentali, stanno costruendo una moschea di mattoni, alta tre volte le case…

Ci inoltriamo nel campo seguite da sempre più bambini che ci prendono per mano, si mettono in posa per una foto.

Facciamo con loro dei giochi, balliamo, poi riprendiamo la strada.

Anche gli adulti ci chiedono di fare foto con loro e Gadisa ci spiega poi, che per gli Africani poter mostrare agli amici una foto con persone di etnia diversa è una sorta di vanto.

Per strada incontriamo alcune capre e un venditore di canna da zucchero che con il suo machete taglia qualche pezzetto, poi lo apre in quarti per la lunghezza per permettere di rosicchiare quel dolce contenuto.

Quando terminiamo il giro salutiamo i bambini, ma una bimba non vuole lasciare la mia mano. Gadisa le spiega che dobbiamo andare, ma lei inclina la testa, non ne vuole sapere.

È una situazione struggente, mi sento impotente, soffocata dalle emozioni. Le prometto che ci vedremo domani, mentre altri bambini vengono verso di noi e con gentilezza la prendono e la spostano pian piano.

Ci allontaniamo. Nella jeep i nostri respiri si fanno lenti. Non parliamo granché. Ognuna di noi accoglie ciò che abbiamo dentro: un senso di frustrazione ci accomuna.

Gadisa ci racconta la storia di qualcuno di loro facendoci notare il quartiere che confina con il campo: case eleganti di tipo coloniale dove vivono persone molto benestanti.

In Africa la classe media è molto ristretta: le persone sono molto povere o molto ricche.

Nel pomeriggio, quando i ragazzi del centro tornano da scuola, ci dividiamo in due gruppi: qualcuna di noi fa massaggi, le altre, con lane e cotoni colorati insegnano ad usare gli uncinetti.

È bello vedere grandi e piccoli, maschi e femmine, intenti nei loro lavori. Molti fanno un braccialetto, un ragazzino cuce due mattonelle all’ uncinetto e si costruisce un guanto.

Il pomeriggio si conclude con tutti contro tutti a calcio e lotta: tutti contro Gadisa che gioca con loro come il più piccolo dei ragazzi ed il loro papà più grande.

GIORNO 5: Una bella sorpresa

Oggi siamo tornate nella scuola del Campo dei Rifugiati. I bambini ci aspettano per insegnare loro qualcosa.

Abbiamo deciso di iniziare con i numeri in inglese, “in anglifàno” come dicono nella loro lingua oromo.

Così ci siamo cimentate in qualche gioco con i numeri e la loro scrittura nella prima delle tre classi dove i bambini sono piuttosto piccoli.

Alcune delle bambine hanno con loro una borsa ed escono alla lavagna tenendola stretta nelle mani, disegnano il loro numero e se ne tornano al loro posto soddisfatte.

Una buona parte dei bambini segue con attenzione, qualcuno è perso nei propri pensieri. Quando la maestra, seduta in disparte se ne accorge, li raggiunge, tira loro un po’ un orecchio poi torna al suo posto.

Verso il termine della lezione ci raggiunge la ragazza che fa da dirigente e ci dice che oggi i bambini avranno il pranzo, quindi possiamo continuare il nostro lavoro con un’altra classe.

Non siamo granché soddisfatte del nostro lavoro, ma Gadisa e le maestre ci dicono che è molto importante ciò che abbiamo fatto, che i bambini amano molto imparare da persone diverse; per loro è sempre qualcosa di nuovo e di piacevole.

Così ripetiamo i nostri giochi anche nella classe successiva. Qualcuno è molto bravo, qualcuno sa disegnare i numeri molto bene, altri vivono un po’ di rendita sulle voci degli altri. Tutto normale, come nelle nostre scuole.

Al termine della seconda lezione i bambini escono composti, e si dirigono a prendere il loro cibo in una baracca di lamiera che funge da mensa.

È una notizia bellissima. Oggi questi bimbi possono mangiare a scuola; chissà se gli altri giorni i loro genitori riescono a dare loro almeno un pasto…

Nel pomeriggio ci aspettano i ragazzi del centro di Gadisa, oggi il nostro programma prevede yoga, disegno e canto.

Il tempo è buono e possiamo metterci sul pezzetto di prato che è parte del piccolo cortile.

È una cosa nuova, per loro, muovere il corpo, essere consapevoli delle posizioni ed abbinare il respiro. Andiamo per gradi. All’inizio ridono molto: è una cosa così strana per loro!

Pian piano, capiti i movimenti possiamo abbinare il respiro e sono molto concentrati, specialmente nelle posizioni in cui si va a lavorare sull’equilibrio sono, molto bravi.

Rimangono con noi fino alla fine degli esercizi e i loro visi sono felici.

Nel disegno si mettono alla prova con un disegno collettivo con l’aiuto di Alice. Il primo risultato non li soddisfa granché, quindi giriamo i fogli e creiamo un nuovo disegno. Ecco, di questo sono soddisfatti e sorridono felici.

Concludiamo il pomeriggio con un gioco con le voci. Ridono dei nostri vocalizzi e di quelli del professore che si lancia nell’arena canora, una ulteriore novità, per questa giornata intensa.

Mentre Gadisa è ad una riunione, noi rientriamo a piedi verso la guesthouse accompagnate da uno dei maestri.

Il buio si avvicina, i negozietti accendono le loro luci, la gente torna verso le loro case.

Arriviamo alla guesthouse che è buio.

Nel cielo una luna immensa.

GIORNO 6: Il potere del respiro

Quando, al mattino, arriviamo alla scuola del campo dei rifugiati, i bambini sono fuori dalle aule per una breve pausa.

Un mare di bambini con i loro gilet rossi di lana che quando ci vedono ci vengono incontro.

Mi sento prendere le mani e scopro che la bimba che l’altro ieri non voleva lasciarmi la mano è di nuovo accanto a me. Al posto del vestitino nero a fiori, oggi anche lei veste la divisa, ma il suo sorriso e gli occhi luminosi, non cambiano.

I bambini sono richiamati nelle classi, noi ci fermiamo qualche minuto con la dirigente poi raggiungiamo l’ultima classe.

Riprendiamo anche con questa classe i numeri, ma oggi, oltre che insegnare i numeri in inglese, ci facciamo insegnare i numeri in Oromo.

I bambini sono molto divertiti nel sentirci tentare di parlare nella loro lingua e il tempo a nostra disposizione passa in fretta.

Ci sentiamo un po’ più rilassate in questo nuovo ruolo da insegnanti e le maestre ci ringraziano.

Anche oggi hanno il pranzo che li aspetta, così finita la lezione si dirigono verso la mensa.

Noi con Gadisa entriamo nel campo per andare a trovare una donna vedova che gli hanno segnalato.

Ha cinque figli di cui uno disabile e le ragazze più grandi hanno smesso di andare a scuola dopo che sono svenute perché senza cibo ed ora restano a casa per accudire i fratelli ed aiutare la madre.

L’unica entrata che hanno è circa 60 centesimi al giorno che recuperano vendendo le bottiglie di plastica per il riciclo.

Non hanno corrente; la notte sono completamente al buio. Per collegarsi alla rete elettrica del campo servono 10€ che naturalmente non hanno.

Gadisa chiede alle ragazze, nel caso lui riuscisse a fornire loro del cibo, se ritornerebbero a scuola e loro rispondono di sì.

L’istruzione, per Gadisa, è qualcosa di fondamentale e ci tiene molto che i bambini ed i ragazzi abbiano la possibilità di andare a scuola.

Questa parte di mondo potrebbe sembrare, a volte, un buco nero, in cui ogni aiuto si perde nel nulla, ma entrando in contatto con loro ti rendi conto quanto sono legati alla vita.

Oggi possiamo esserci noi a dar loro una mano, dopo di noi arriveranno altri e poi altri ancora.

Come dice Gadisa la povertà non è uno stato d’essere, ma uno stato mentale.

Ci sono atleti che pur diventando ricchi restano poveri di animo e nonostante la ricchezza non sono felici.

Poi guardo i ragazzi di Gadisa: hanno poco, ma hanno la capacità di sostenersi l’un l’altro e di condividere quel poco che hanno con gli altri.

Nel pomeriggio, al Testimony Center, riprendiamo con i ragazzi gli esercizi di yoga, pratichiamo un esercizio di coerenza cardiaca e Gadisa si sofferma a parlare e spiegare loro l’importanza di poter gestire il proprio stato d’animo.

Sono tutti molto attenti alle parole di Gadisa e mentre ascoltano qualcuno di loro si abbraccia, si accarezza. Il contatto mancato con i loro genitori lo cercano e lo scambiano tra di loro con una semplicità disarmante che ci commuove.

Concludiamo il pomeriggio insegnando loro una danza popolare francese. Ridiamo come i matti, ma alla fine tutti imparano i passi e le posizioni.

Il prossimo ballo ce lo insegneranno loro. Non vedo l’ora!

GIORNO 7: Football e Oromo

Nel weekend i ragazzi non vanno a scuola, così possiamo andare al Testimony Center già nel mattino.

Partiamo con gli esercizi di yoga che stiamo insegnando a loro; i ragazzi cominciano a memorizzare le posizioni ed i nomi.

Visto che abbiamo più tempo, oggi, andiamo a ripescare i giochi di quando eravamo bambine, quindi cavallina, campana, carriola, ponte…

Le ragazze sono sempre un po’ più restie, soprattutto le più grandi, sembra che si vergognino. Gadisa non obbliga nessuno, noi siamo qui per aprire opportunità, ognuno è libero di coglierle rispettando il proprio sentire.

Dopo la yoga abbiamo escogitato un piano per fare una sorpresa a Gadisa, così mentre io Cris e Manu, ci facciamo accompagnare a fare la spesa per il lavoro che vogliamo fare domani con i ragazzi, Alice e Madda, coinvolgono i ragazzi in un disegno.

La spesa la facciamo alle porte di un compound ricco e troviamo un po’ di tutto. Ci attraggono sempre i colori e le varietà degli alimenti venduti sfusi: hanno profumi e forme che stimolano i nostri sensi.

Nel pomeriggio l’appuntamento è al campo. I ragazzi e Gadisa amano giocare a calcio ed il sabato è dedicato a questa loro passione.

Qualcuna delle bambine si unisce, anche Madda e Alice si uniscono alla mischia.

Il campo è fatto di un ghiaino rosso piuttosto scivoloso: occorre concentrazione per inseguire la palla e non inciampare in qualche sasso o altro.

Con Cristina iniziamo a fare un mucchio di bottiglie di plastica disseminate sul campo; ben presto altri ragazzi si uniscono e in breve tempo il campo è pulito ed il mucchio potrà essere raccolto da qualcuno per recuperarne qualche Bir, la moneta locale.

Mentre la partita prende il via, noi ci sediamo vicino a chi non gioca. Cristina tira fuori gli uncinetti, io i ferri e ben presto qualcuno ci chiede di provare. Sono tenaci e ben presto le catenelle si trasformano in punti alti e bassi, una sciarpa comincia a prendere forma.

Quando cala il sole la luce è bellissima, facciamo qualche foto poi cominciamo a sentire il freddo, allora coinvolgiamo i ragazzi e le ragazze in qualche gioco.

Scende la sera velocemente, a questa latitudine, ci dirigiamo verso casa con un nuovo baglio di immagini e sensazioni.

Dopo cena Gadisa ci racconta di un argomento a lui molto caro: gli Oromo, la tribù da cui proviene.

Gli Oromo hanno una tradizione antichissima – dice – la più antica forma di democrazia al mondo e sono la tribù più grande dell Etiopia, infatti la lingua Oromo viene ritenuta al pari dell’Amarico, lingua usata nelle scuole.

Gli Oromo sono divisi in cinque grossi clan che attraverso il sistema Abbaa Gadaa governano il paese.

Abbaa significa padre ed è colui che con il suo clan prende il potere e lo detiene per otto anni.

Passati gli otto, anni la carica passa nelle mani del clan successivo e così via, fino a tornare, dopo quarant’anni (5 clan x 8 anni) al primo clan.

In ogni clan, il nuovo Abbaa è, solitamente, un discendente dell’Abbaa precedente e non cresce con gli altri bambini, ma in un ambiente molto protetto: sul suo corpo non devono esserci cicatrici o altro, ma deve essere perfetto. La sua vita deve essere immacolata, non può bestemmiare o dire parolacce e deve arrivare, fino al momento della nomina, vergine.

Il Dio degli Oromo è colui che ha donato loro l’acqua, ha creato la terra, gli animali e le piante ed ogni anno si raccolgono per la giornata del ringraziamento in un grande fiume e sotto un immenso albero che è anche la sede dell’Abbaa reggente.

Alcuni clan, soprattutto quelli più ricchi di terreni coltivabili e di materie prime, vivono tuttora come allora, completamente lontani dal concetto che conosciamo noi di società.

Gadisa è un fiume in piena. Instancabile risponde alle nostre domande trasmettendoci il suo orgoglio per questa gente, per la cura ed il rispetto che hanno per l’ambiente in cui vivono.

Noi lo ascoltiamo coinvolte dalla sua passione e dal suo entusiasmo.

Che meraviglioso bagaglio ci riporteremo in Italia!😍

GIORNO 8: Tempo prezioso

La domenica è giorno di festa. Per le strade la gente veste, se può, un vestito migliore.

Al Centro troviamo i ragazzi intenti in lavori differenti: qualcuno studia, qualcuno aiuta la loro Mami a lavare le scarpe; c’è chi guarda chi si lava i capelli, chi fa ginnastica.

Quando entriamo, come al solito, lasciano le loro occupazioni e ci vengono ad abbracciare, a salutare. Il loro saluto preferito è una stretta di mano ed un leggero colpo con la spalla destra alla nostra spalla.

Oggi portiamo a loro una lezione sull’Italia: un po’ di geografia, un po’ di storia, cibo, arte. Quello che li diverte di più è scoprire i nostri segni con le mani per sottolineare ciò che diciamo.

Finita la lezione sistemiamo le tavole, ci laviamo insieme le mani, poi ad ognuno diamo una pallina di impasto, che abbiamo preparato, per fare dei biscotti. Finito il lavoro, recuperiamo le loro forme e ce le portiamo alla guesthouse per la cottura perché oggi la corrente elettrica, per qualche guasto, non funziona.

Per loro non è un grosso problema. La corrente la usano per fare da mangiare o per l’acqua corrente, ma se non c’è, accendono le braci e se non c’è l’acqua corrente, riempiono un secchio dalla cisterna  nel cortile e se la versano a vicenda.

Nel pomeriggio Gadisa ci viene a prendere e ci porta in un’area rurale poco fuori dalla città. Nell’uscire da Addis Abeba, dobbiamo fermarci in una stazione di controllo, dove degli uomini armati controllano se nella macchina abbiamo armi.

Il loro fare è cortese, la sento come una protezione.

Attraversiamo un movimentato mercato poi le costruzioni diradano ed il verde prende il sopravvento.

Distese di teff e di grano si muovono al vento. Gadisa ci indica una costruzione dove viene fatta la pesa dei carichi di sementi.

Per un piccolo guasto alla macchina siamo costretti ad una sosta; per fortuna è solo un tubicino da fissare meglio.

Mentre siamo fermi, ogni tanto passa qualcuno, si fermano, ci chiedono se abbiamo bisogno di aiuto. Sono molto socievoli, ridono guardando le foto che ho fatto loro, chiacchierano amichevolmente con Gadisa che si interessa alle loro vite.

Il primo è un omino anziano dal sorriso contagioso. Chiacchiera con Gadisa e ci chiede se vogliamo bere un po’ del latte delle sue mucche.

Da lontano vedo fermarsi uno dei tipici tuktuk, ne esce una signora elegante. I ragazzi dei piccoli taxi l’aiutano a caricarsi dei suoi acquisti: borse, una tanica d’acqua sulle spalle, in testa il grande coperchio del “forno” che loro usano per cuocere il pane ed il tradizionale ingera, una sorta di omelette fatta con il teff fermentato.

Anche lei si avvicina con un gran sorriso, si ferma a parlare con noi e ci invia a casa sua per un caffè.

Infine arriva una ragazza che sta frequentando l’ultimo anno di scuola e ci racconta che un altr’anno andrà all’università. Ci racconta che va a scuola a piedi attraverso i campi, che cammina circa un’ora ad andare ed una a tornare.

Ci chiede se ci piace il posto, o se preferiamo la città.

Ci racconta che il raccolto del teff viene fatto a volte con dei macchinari che noleggiano, oppure a mano con un procedimento piuttosto complesso: prima lo tagliano e lo fanno seccare bene, poi lo mettono sopra ad un pavimento di sterco compattato e ci fanno correre sopra gli animali per separare i semi dalle foglie. In fine, con la forca buttano in aria ciò che c’è a terra, il vento porta via la paglia e a terra restano finalmente i semi, che sono piccolissimi, più piccoli dei semi del sesamo.

La sera Gadisa ha organizzato la cena tradizionale. Le cuoche hanno lavorato un sacco per preparare le salse per condire gli ingera per tutti quanti.

Mettiamo insieme le tavole della guesthouse creando un tavolone lungo dove tutto mangiamo assaporando gusti contrastanti: il dolce, il piccante, le spezie, il saporito.

È una fe:sta per gli occhi e per il palato!

Finita la cena, un film, popcorn ed i biscotti fatti nel pomeriggio.

Tempo prezioso, qui in Etiopia♥️

GIORNO 9: Grazie, Amesèghenallo, Galatoma

La nostra settimana ricomincia alle scuole del campo rifugiati. I bambini sono in cortile: qualcuno ci prende per mano, altri, coinvolti da una maestra, iniziano un gioco in cerchio.

Oggi in classe giochiamo con gli animali. Non è facile mantenere la loro attenzione per molto tempo, anche se cerchiamo di coinvolgerli, di farli venire alla lavagna, di cambiare modalità.

Li salutiamo finita la lezione. Gli abbracci cominciano ad essere profondi. Le loro teste si appoggiano alla mia spalla; sento il loro cuore, insieme al mio, traboccante, incontenibile. Gli occhi lucidi di lacrime come unico sfogo possibile.

Finita la scuola ci avviamo verso un piccolo market in cui facciamo una spesa per la famiglia che abbiamo visitato la scorsa settimana. Riso, pasta, farina, olio, zucchero, sapone per un po’ di settimane riusciranno a mangiare in sette.

Torniamo al campo e troviamo solo una delle figlie con i fratelli più piccoli. La più grande non ha potuto rientrare a scuola perché l’anno è troppo avanti ed ha deciso di andare al centro di Addis Abeba a cercare lavoro. Assieme ai ragazzi c’è un loro vicino poi arriva un’altra ragazza con una bimba in braccio.

Vedendo Gadisa gli racconta che la bambina è la figlia di una signora a cui lui qualche settimana fa ha dato dei soldi e che ha investito quei soldi in una piccola attività commerciale che le ha permesso di iniziare a guadagnare e procurare il cibo per lei ed i suoi bambini. Vediamo gli occhi di Gadisa illuminarsi di gioia e di gratitudine.

Quando rientra la mamma dei ragazzi ci accoglie con gentilezza e ci fa sedere al riparo da sole. Il suo nome è Alphias. Mentre Gadisa le spiega il perché della nostra visita, le sue mani vanno sul cuore, il suo sguardo incredulo, la voce, come una cantilena, ripete – Galatoma, Galatoma- sembra dire: davvero sto ricevendo tutto questo?

Vorrebbe offrirci un caffè, ma le promettiamo di tornare un’altra volta. Ci salutiamo. L’abbraccio scioglie l’incredulità e attraverso grosse lacrime  la trasforma in gratitudine e amore.

Nel pomeriggio ci aspettano i ragazzi. Iniziamo con la yoga, ormai conoscono i movimenti, poi ci chiedono di fare un po’ di cavallina e se la ridono divertiti.

Oggi proponiamo un massaggio di riflessologia plantare. Mentre Alice disegna i piedi con il riferimento degli organi e delle varie parti dei corpo, noi sistemiamo i ragazzi a coppie e cominciamo a spiegare dove premere.

Per molti di loro è molto strano toccare i piedi di un’altra persona, ma a loro modo partecipano comunque, chi provando, chi prendendo appunti.

Anche con loro gli abbracci cambiano “consistenza”, reciprocamente ci avviciniamo, iniziamo a conoscere le nostre unicità.

Rientriamo verso la guesthouse a piedi. Ci piace questa passeggiata che ci permette di entrare più profondamente in questo mondo.

È curioso come ovunque ci siano lavori: da una parte abbattono baracche e negozi per procedere con il progetto di allargare la strada, dall’altra si vedono sorgere grandi costruzioni che stanno fondamentalmente cambiando l’aspetto di questa parte della città.

Forse.

Sto leggendo un libro sul periodo di reggenza dell’ultimo imperatore Etiope, della metà del Novecento e mi fa sorridere che inizia raccontando che Addis Abeba è un cantiere continuo…

Quindi non è cambiato un granché!

GIORNO 10: Un pezzo di sapone

I bambini della scuola del campo profughi ormai ci aspettano; quando vi vedono iniziano a chiamarvi in coro.

Le mani si allungano verso le nostre, le braccia si aprono in abbracci, gli occhi sorridenti.

Manca una maestra perché ammalata così la classe si unisce con la classe di oggi.

Anche per noi è divertente imparare nomi di animali e di colori.

Uno dei piccoli di ieri si ricorda tutto: numeri, animali, colori; persino meglio della maestra!

Dopo la nostra lezione andiamo a fare la spesa per portarla ad un’altra signora vedova.

Decidiamo di andare dalla signora che aveva indicato a Gadisa, Alphias, la signora di ieri, per ringraziarla del suo altruismo.

Ci accoglie nella sua umile casa preoccupandosi di dare ad ognuno un cuscino su cui sedere immensamente grata di vederci da lei, mentre lei si ranicchia infondo alla stanza.

Ha perso il marito in guerra e ci racconta che è molto preoccupata per i suoi figli: molto spesso partono al mattino per andare a scuola senza cibo e lei prega per loro perché possano tornare a casa nonostante lo stomaco vuoto, senza incontrare brutte persone che li possano coinvolgere in traffici illegali.

Quando Gadisa apre il sacco delle cose acquistate e tira fuori alcuni pezzi di sapone, la signora sospira, piange, si commuove mentre ci racconta che quando l’altro giorno aveva detto a Gadisa di andare nell’altra famiglia, si era pentita di non aver chiesto al meno del sapone.

È così grata, ora, di poter lavare i vestiti dei suoi figli, senza che si debbano vergognare nell’ andare in giro con i vestiti sporchi.

Un pezzo di sapone.

Sembra impossibile che possa far commuovere a tal punto. Siamo tutte molto toccate dalle sue  parole, ci chiama angeli e continua a ringraziare Dio e noi di essere andate a trovarla.

Anche lei ci vuole offrire un caffè, ma non ci sentiamo di portarle via il poco che ha.

Osservo il suo viso nella penombra della casa; un tatuaggio sopra gli occhi le disegna una sorta di unico sopracciglio che si abbassa verso il setto nasale, gli occhi sono infossati, lucidi, le guance scavate. Non saprei darle un’età. Pensando all’età dei suoi figli posso pensare ad una quarantina.

Ci racconta che ricorda ancora qualche parola in inglese di quando andava a scuola, ma poi – racconta – ha lasciato la scuola per sposarsi.

La salutiamo mentre la sua cantilena di ringraziamenti e benedizioni ci accompagna.

Le sue mani nodose stringono accarezzano le nostre mani e si uniscono in segno di preghiera. Ci ringrazia di essere andati a trovarla.

Nel pomeriggio al Testimony Center, dopo i graditi abbracci, le attività iniziano a gruppetti: Manu massaggia, io e Cristina continuiamo con il laboratorio di maglia e uncinetto, Alice e Maddalena fanno un po’ di inglese, poi giocano e ballano con un terzo gruppo di ragazzi.

Mi stupisco nel vedere come alcune ragazze imparano velocissime e come questa attività coinvolga anche un sacco di ragazzi: chi inizia una sciarpa, chi una fascetta.

Mi affascina come una cosa insegnata da noi, dopo poco venga insegnata dai ragazzi a chi si unisce, professori compresi.

La condivisione è un bene speciale che Gadisa ha trasmesso loro con il suo generoso modo di fare.

Spesso, quando ci spostiamo in macchina, incrocia qualcuno a cui dà un po’ di soldi senza che gli vengano chiesti: la madre di una ragazza che conosce, che va all’università, un’ atleta che lo ha stupito per le sue doti.

Dopo il pomeriggio coi ragazzi, Gadisa ci accompagna al campo di atletica dove si allena anche uno dei suoi ragazzi.

Ragazzi che si allenano a calcio, runner, bambini che giocano. Troviamo anche un gruppetto di ragazzi del Campo rifugiati che giocano a calcio: incredibile come giochino con ciabatte ai piedi come se avessero le scarpette chiodate. Infatti Gadisa ci spiega che, attraverso dei club in giro per l’Europa, riesce ad organizzare dei carichi di scarpe da calcio e atletica, dei completi da allenamento, che poi distribuisce qui nel campo per chi ne ha bisogno.

Il campo è formato da una striscia in terra battuta rossa che corre attraverso un saliscendi di prato. C’è parecchia gente, Gadisa dice che così come lo vediamo è quasi vuoto, rispetto al mattino o nei weekend.

Guardo Gadisa e vedo l’acqua fertile del Nilo che lascia nutrimento in ogni luogo che tocca, con estrema umiltà, con il cuore in mano e sempre con il sorriso.

GIORNO 11: Donne e uomini

Ultimo giorno nel campo rifugiati, oggi, così ne approfittiamo per fare spesa doppia.

Andiamo a vedere anche di un materasso da regalare alla scuola per quando i bambini affamati non si reggono in piedi. Appena vede gente bianca, il tipo del negozio raddoppia i prezzi, invitando Gadisa a tenere dei soldi per se. Naturalmente Gadisa non accetta, così gli proponiamo di venire da solo, nei prossimi giorni, per tornare al prezzo corretto.

Alla scuola i bambini della terza aula ci aspettano. Ripetiamo animali e colori in inglese e nel frattempo li ripetiamo anche noi in Oromo.

Chissà cosa passa nelle loro menti, quando arriviamo nelle loro vite un po’ di sorpresa, con le nostre pelli diverse, gli occhi chiari, gli abiti diversi. Qualcuno sembra timido, qualcuno più curioso comincia a toccare le nostre mani, ad osservare le unghie, se lo abbiamo un anello, un braccialetto.

Se ci accovacciamo alla loro altezza, qualcuno viene a prendere un abbraccio ed  apre la strada agli altri. Risollevarsi è impossibile finché la fila non si smaltisce.

Credo di non aver mai abbracciato così tanti bimbi come in questi giorni. Hanno tocchi diversi, intensità diverse, ma sotto le loro uniformi colorate, i corpi gracili nascondono Anime ricche di amore.

Dopo la scuola entriamo a cercare le due donne rimaste sole. La prima è una nonna che tiene in braccio il bimbo di sua figlia. Quando la giovane ragazza  è rimasta incinta, il padre ha cacciato tutti di casa. È intervenuta la polizia per ridare loro la casa, il padre se ne è andato e anche la mamma del bimbo se ne è andata per cercare lavoro.

La madre non sa dove sia la figlia, ha perso ogni contatto, è molto preoccupata per lei e non sa se sarà in grado di sfamare questo nuovo bimbo, insieme agli altri quattro che vanno ancora a scuola. Con il nipote piccolo di nove mesi non riesce ad andare a lavorare, ha provato per un periodo ad andare in strada a chiedere l’elemosina, ma con scarsi risultati.

Mentre lei racconta, entrano nella sua casa, dove ci ha fatto accomodare, Nastah, la signora che abbiamo incontrato ieri ed un’altra signora alta e magra. Nonostante abbiano poco o niente sono lì per sostenerla ed aiutarla.

Nasrah si accovaccia accanto a Cristina, le abbraccia un ginocchio, ci sorride come una vecchia amica. Oggi ha messo un fazzoletto giallo ed il suo viso è luminoso anche nella penombra della casa. Oggi lei è lì come noi, con il solo desiderio di essere utile, ha messo da parte la paura. Oggi è giorno di amore e fede.

Storie di disperazione si susseguono, ma un abbraccio, un sorriso, un pugno di riso, riescono a fare un miracolo.

Dieci Euro per noi sono una pizza, un paio di pacchetti di sigarette, un film; per loro sono l’ indispensabile per vivere, a volte per cambiare la loro vita.

La seconda signora che visitiamo ci accoglie in compagnia della figlia: dimostra cinque sei anni ma ne ha diciannove ed è diventata ipovedente.

Dieci dei suoi quattordici figli sono morti a età diverse, il più grande è morto per malattia poco prima di sposarsi e come loro è mancato anche il marito.

Durante la fuga dalla regione Somali, i soldati l’hanno picchiata con i bastoni, le hanno rotto un braccio e causato un danno alla schiena che non le permette di lavorare. I suoi altri tre figli, piuttosto che rimanere nel campo profughi e fare la fame hanno deciso di tornare nella loro regione di origine e di lavorare come schiavi.

Nonostante tutto questo – dice – io sono ancora qui, sono viva e posso aiutare mia figlia.

Le auguriamo di potersi ricongiungere presto con i suoi figli e lei ci dice che si augura che i suoi figli possano fare ad altri ciò che noi stiamo facendo per lei. Ci augura salute e giovinezza, le sue parole sono colme di gratitudine e di amore.

Risaliamo silenziose in macchina. I nostri pensieri vanno a queste donne, così forti, determinate nel sostenere i propri figli. Ci appare una figura di uomini deboli, sfiduciati, molto lontani dall’ideale di Abbaa (padre) del sistema Gadaa degli Oromo, dove gli uomini vengono allenati ad essere responsabili delle loro famiglie, insegnando loro l’amore, il rispetto delle donne, la conoscenza del territorio, la cura degli animali e del territorio.

Nel pomeriggio siamo al Testimony Centre dove i ragazzi tengono per noi una lezione sull’Etiopia e sul sistema Abbaa Gadaa. È uno dei ragazzi più grandi che prende la parola. Vederlo raccontare degli Oromo con orgoglio riempie il nostro cuore e fa commuovere Gadisa che ha ben impressa nella mente la figura di quel bimbo, quando è arrivato al centro, la sua difficile vita, le sue difficoltà nel riuscire a fidarsi delle persone.

Terminiamo il pomeriggio con un gioco divertentissimo, una mix  di “ chi ha paura del lupo nero” e un tiro alla fune umana. Ci sfidiamo ridendo fino al tramonto.

Il buio arriva velocemente. Le strade ancora brulicano di macchine, qualcuno ancora lavora, altri tornano alle loro case.

La vita continua, domani è un altro giorno.

Domani saremo in viaggio: il centro di Addis Abeba e poi un viaggio verso Sud fino a Hawasa.

GIORNO 12: Addis Abeba, città di contrasti

Le strade sono intasate per arrivare ad Addis Abeba. Veicoli privati, pullman strapieni con code infinite di gente che aspetta, taxi, grossi camion.

Non ci sono regole in strada. Le frecce non si usano, i fari solo lo stretto necessario, se non ci sono strade illuminate, la corsia di destra è adibita praticamente solamente alla sosta. Vige la legge del più forte, del più scaltro.

Entrare nel centro della città ci toglie la parola: palazzi enormi, moderni, si susseguono. Aree verdi, aiuole, fiori, la pista ciclabile hanno preso il posto delle lamiere, dei marciapiedi dissestati, delle voraggini.

Il passaggio è incredibile.

La nostra prima tappa è lo Unity Park, che sorge accanto al palazzo di Menelik e la sede del Primo Ministro Etiope. Ha pochi anni di vita e lo ha fortemente voluto il governo attuale per risollevare le sorti di un quartiere in cui era pericolosissimo entrare per la malavita, gli attentati, i traffici di droga.

Ne è nato una sorta di parco divertimenti con piante di ogni tipo, una ricostruzione delle abitazioni provenienti dalle varie tribù ed un bellissimo zoo con animali africani tenuti molto bene.

Dalla collina su cui è adagiato il parco un’ampia vista sulla città moderna. Ci rendiamo conto della grande ricchezza di parte della popolazione etiope di cui ci parlava Gadisa.

Nel palazzo di Menelik fanno bella mostra i progetti, ormai ultimati, dei resort costruiti dal governo sul territorio etiope, grazie alle donazioni dei ricchi.

Siamo un po’ inebetite da ciò che vediamo: le immagini che abbiamo vissuto fino a ieri sono così contrastanti. La mente cerca di trovare il senso, ma il cuore proprio non ci riesce.

Un grande senso di incoerenza, di frustrazione, bisticcia con le cose belle che i miei occhi percepiscono.

Finita la visita alla parco ci spostiamo al Museo Nazionale. Un signore coloratissimo ci accompagna, in un inglese incomprensibile , alla visita del museo che contiene le nostre origini: lo scheletro di Lucy, ovvero i resti del più antico ominide del pianeta.  Peccato non aver capito nulla, o poco più.

Si avvicina il tramonto e la nostra nuova meta è il Friendship Park, un altro parco costruito negli ultimi anni al posto del Damp, la discarica della città. La discarica è ora fuori città, un numero indicibile di poveri, ancora vi abita, nell’ odore nauseante e nella sporcizia.

Il parco è attraversato da una stradina ben asfaltato, con i chilometri segnati a terra per i runner. Attorno, monumenti, piante, un laghetto curato, scalinate ed una grande piazza infondo alla quale, ogni giorno, alle 19, uno spettacolo di musica, fari colorati e getti d’acqua, allieta gli avventori.

Nel parco l’entrata è a pagamento e vengono offerte varie tipologie di servizi fotografici, infatti incontriamo numerose coppie di sposi con vestiti occidentali, carichi di strass e brillantini ovunque.

Mentre il tramonto si spegne, le luci della città si accendono. I palazzi diventano colonne illuminate, gli alberi, i pali della luce diventano spirali luminose.

La città appare immensa e quando parte lo spettacolo dell’acqua capiamo perché Addis Abeba è chiamata la Las Vegas dell’Africa.

I nostri “perché” diventano “chissà”. Riuscirà, questo governo, un po’ alla volta, ad incanalare i proventi di tutto questo business nella parte povera del paese, creando infrastrutture, scuole, ospedali, industrie, incentivando l’agricoltura con l’aiuto di macchinari e altro?

La nostra giornata si conclude in un locale tipico dove servono il tradizionale Ingera accompagnato dal vino di miele, da musica proveniente dalle varie tribù africane e da snodatissimi ballerini.

Rientriamo al nostro compound lasciando le luci della città alle nostre spalle. La sensazione è di tornare a Casa.

Qui si torna a vedere le stelle. Un cane abbaia. In lontananza il suono di una preghiera. La mezza luna, a testa in giù, mi ricorda quanto lontane sono le mie montagne, ma qui non mi sento fuori luogo. C’è una nuova famiglia, attorno a noi.

GIORNO 13: In viaggio

Sveglia presto, questa mattina; alle sei siamo in furgone. In strada già parecchio traffico in direzione del centro.

Le strade in Africa sono pericolose: animali che attraversano o che postano sulla riga di mezzarìa, uomini e donne che spazzano i bordi delle strade, macchine ferme, attraversamenti selvaggi ed il loro tipico modo di guidare zigzagando.

Alle fermate degli autobus una fila ordinata di persone aspetta il loro turno per trovare posto sui mezzi già colmi. Gadisa ci spiega che aspettano anche due ore e quando piove vederli fermi sotto la pioggia è così triste.

Eppure continuano a costruire blocchi di condomini, fino a venti chilometri dalla città, senza servizi, senza negozi, con scuole di basso livello perché i maestri non ci vogliono andare. In questi poli abitativi non ci sono ospedali, solo dei centri privati a cui solo i ricchi riescono ad accedere.

Per poco più di un centinaio di chilometri percorriamo l’autostrada: un nastro di asfalto che passa tra i campi di teff, grano e mais.

Poi riprende la strada normale: due corsie piene di buche e pericolosi dissuasori di velocità, non segnalati, posti senza una regola ben precisa, soprattutto fuori dai paesi abitati che si attraversano.

In realtà la gente c’è ovunque, ai bordi delle strade: pastori con i loro animali, bambini con lunghe canne da zucchero, donne con coltelli, macete, accette in vendita.

Sulle strade, oltre alle macchine, infiniti camion, carri trainati da cavalli che i ragazzi guidano,stando in piedi, come delle bighe e i numerosi azzurri tuktuk.

Gadisa ha una guida sicura e scaltra nel evitare buchi, sorpassare veicoli lenti, evitare animali e persone sulla carreggiata.

I’attraversamento dei paesi è la parte più complicata e anche più pericolosa. La vita brulica: mercati, meccanici, carriole di legno cariche di merci, caffetterie e ristoranti tipici adagiati a terra a lato della strada.

A Shashamani ci fermiamo per una breve pausa ed un caffè, ma poi, visto che è presto decidiamo di andare a visitare il villaggio Rastafari.

Gadisa parla con un suo amico guida che ci accompagna, perché lui non è mai stato, personalmente. La guida ci dice che non possiamo entrare a visitare la chiesa se non abbiamo la gonna così ci procura un paio di bandiere Jamaicane ed un paio di teli bianchi. Già ci viene un po’ da ridere, poi quando entriamo nella “chiesa” scopriamo una casa con una serie di quadri, foto e stampe di momenti di vita di Hailé Salassié come immagini sacre.

Dopo la chiesa entriamo nel loro compound dove un altro uomo ci spiega come è nato il centro e ci porta a vedere come gli uomini vengono suddivisi, come le tribù di Israele, in 12 mesi e ad ogni mese si riferisce un colore, un mese, una parte del corpo, una qualità e un discepolo di Gesù.

Finita la visita si riparte per Hawasa, il lago, i suoi dintorni e gli animali presenti.

Siamo agli sgoccioli del nostro viaggio, ma ancora molte cose interessanti ci aspettano.

GIORNO 14: Trekking e Tuktuk

Ci svegliamo prestino e dopo una ricca colazione davanti al Lago partiamo con il furgone per raggiungere un villaggio dal quale partiamo per un trekking.

Questa zona è un eden per ogni tipo di piantagione. Umido e caldo permette la coltivazione di un terreno ricco: alberi di avocado, piante di caffè, patate, teff, granoturco, ortaggi di ogni tipo.

Purtroppo però la maggior parte delle loro energie è dedicata al chat, che li rende dipendenti, inoperosi, lesi mentalmente.

Avrebbero un paradiso in terra, luoghi molto belli con cascate, acque termali.

Proprio dove parcheggiamo, il bar ristorante è in una costruzione di Hailé Salassié, con un architettura moderna, dove lui veniva per godere delle terme e le sorgenti bollenti. Curioso il cartello che troviamo nel bar che vieta di masticare chat nei pressi del locale.

Il trekking si snoda tra banani, piante di chat, piante enormi dai tronchi massicci e foglie rigogliose. Ci accompagna una guida amico di Gadisa, che conosce piante ed uccelli  e nonostante la sua mole massiccia, cammina spedito.

Dopo circa quaranta minuti di salita incontriamo dei bambini che vivono lassù ed ogni giorno scendono al paese a piedi per poter frequentare la scuola. Ci seguono con i loro piedi nudi o al massimo infilati in semplici ciabatte di gomma.

Superiamo il loro villaggio dove due caprette si rincorrono e giocano fra loro.

La meta è una cascata nascosta dal verde. Il cielo coperto ci ha permesso di salire senza soffrire il caldo, ma non ci invoglia andare a bagnarci sotto il forte scroscio. Pur stando solo vicino, l’acqua vaporizzata ci raggiunge formando un piccolo vortice. Una grossa foglie scende danzando. La osservo cogliendo quel delicato momento senza tempo che contrasta con la forza dell’acqua, appena poco dietro.

Nel pomeriggio, con una moto ed un tuktuk, ci accompagnano alla sorgente di acqua calda. La strada, dissestata, si infila tra campi e villaggi. Alcune persone lavorano, la maggior parte ci guarda passare con curiosità, qualcuno con interesse. I bambini ci rincorrono chiedendoci qualche spicciolo.

Il nostro autista è molto scaltro, ma qualche volta dobbiamo scendere dal tuktuk perché i guadi sono troppo profondi.

Man mano che ci inoltriamo, la strada diventa sempre più difficile da percorrere, finché decidiamo di proseguire a piedi. Appena scendiamo uno stuolo di ragazzini si avvicina ed inizia a seguirci. Controllano i nostri movimenti, le nostre intenzioni.

Durante questi ultimi giorni abbiamo imparato come ogni piccolo servizio o aiuto prestato, specie ai bianchi, diventi una scusa buona per chiedere una mancia. Gadisa, per questo, si affida a guide di sua conoscenza, che lo aiutano nel tenere a bada le richieste di tutti.

La sorgente calda forma un lago che si mescola all’acqua piovana e si intiepidisce, ma nei pressi dell’origine l’acqua è vicino all’ebolizione e le donne vi cucinano pannocchie di grano turco e uova sode.

Rientriamo percorrendo a ritroso l’andata. Capiamo come mai questi mezzi sono tantissimi: in pochi hanno modo di prendere una macchina ed i tuktuk, sono efficientissimi nel muoversi sia sulla strada asfaltata che sulla terra.

Rientriamo verso Hawasa, dove ci aspetta un tour in barca per vedere gli ippopotami che vivono nella parte opposta del lago. Un po’ piove, ma i giubbotti di salvataggio sono un ottimo riparo. Incontriamo gli ippopotami che riposano tranquilli. Ne vediamo solo una piccola parte, perché nel lago – dice Gadisa – sono un centinaio.

Rientriamo verso il nostro resort dove ci rilassiamo un po’ in sauna.

Un’altra giornata intensa con emozioni contrastanti. Cominciamo a capire perché Gadisa insiste nel dire che l’Africa non è un paese povero, ma che spesso è la mentalità delle persone, poco ricca.

Non è solo il governo a determinare la fortuna di un paese: gli abitanti hanno pari importanza. Penso a quanto critichiamo il governo, anche in Italia; ma siamo sicuri, noi cittadini, di vivere e lavorare per creare un paese migliore?

GIORNO 15: Animali, villaggi e mercati

La nostra giornata inizia con la visita del parco accanto al nostro resort, dove vivono iene, marabù dal becco gigante, e due tipi di scimmie: colobus e vervet dalla coda lunga.

Resto stupita nel vedere le iene: hanno il muso da orsetto e si avvicinano facilmente se qualcuno dà loro da mangiare.

Anche le golose scimmiette si lasciano avvicinare. Le senti molto morbide quando salgono sulle sulle spalle ed è difficile non accarezzarle, ma ci avvisano di non farlo che a loro non piace e potrebbero mordere.

Finita la visita rimaniamo un po’ nel furgone in attesa della persona che ci deve accompagnare al Sidama Village. Ogni persona che passa ci chiede dei soldi. Davanti a noi dei ragazzi lavano le auto di chi è andato al mercato del pesce lì vicino.

Gadisa ci fa notare come tutte queste persone passano il loro tempo in strada. Piuttosto che lavorare. Appena raccolgono un po’ di soldi se ne vanno a comprare del chat, degli alcolici e se ne stanno sdraiati da qualche parte finché non finiscono i soldi, poi tornano alla strada e ricominciano la loro questua.la cosa ancor più triste – dice – è che spesso, in un mese, raccolgono più denaro di un medico!

Finalmente arriva il signore che stiamo attendendo. Fa il guardiano al mercato del pesce, ma pare si sia liberato per accompagnare noi al suo villaggio.

Ci accoglie la solita nuvola di ragazzini, mentre l’omino ci fa visitare l’inetto del villaggio. Un bel prato curato, attorniato da capanne e da case in muratura, più moderne.

Le capanne sono buie, senza finestre, il pavimento di terra battuta. Nella capanna convivono persone ed animali, la struttura di un letto ad una piazza e mezza con un vecchio materasso, qualche sgabello, la tipica Gébera del caffè, sono le poche cose che si vedono.

Dietro al villaggio, piante di caffè, mais, banani veri e falsi permettono loro di sfamarsi. Ci fanno vedere come estraggono la farina dal falso banano; farina che poi fanno fermentare per un mese sotto terra e poi spianano su una piastra sul fuoco per cuocerla.

Gadisa coinvolge i ragazzi che hanno seguito i nostri spostamenti: chiede loro della scuola, se praticano sport. Gli adulti ci fanno accomodare su una panchina, qualcuno si siede su un’altra panca, difronte a noi, altri stanno in piedi. Difficile dire chi guarda chi: loro sono attratti dai nostri visi pallidi, noi dalle loro espressioni.

Tre di loro si mettono a ballare, poi altri sfidano Gadisa in salti, capriole, giochi vari.

È ora di andare. Salutiamo e ringraziamo dell’ospitalità questo villaggio, che riesce ad auto sostenersi e vive tranquillo. Eppure l’abitudine di chiedere dei soldi permane: i ragazzi ci seguono fino al furgone, le loro mani attendono qualcosa.

Gadisa dà un po’ di Bir al più grande dicendo che li divida con gli altri. È una sorta di pre pagamento: il resto lo dà all’omino che ci ha accompagnato.

Rientriamo riportando il signore al suo posto di lavoro e ci dirigiamo al mercato.

Entrare in questo mercato mi ha riportato fra le pagine di Shantaram: viuzze strette di terra battuta attraversate da rigagnoli d’acqua, fango, sporcizia. Banchi pieni di oggetti, nuovi ed usati che attraverso il mercato nero arrivano qui per una seconda o terza vita; spezie, scarpe. È difficile guardare fra i banchi, tanto siamo attente a dove mettiamo i piedi.

La parte dei laboratori del legno e del ferro, visto che è domenica, sono chiusi. Prendiamo un po’ di spezie, poi ci allontaniamo mentre Gadisa ci dice che ci è andata bene, perché nelle giornate infrasettimanali la folla è accalcata e si fatica a passare.

Con la visita al mercato termina la visita di Hawasa, risaliamo in furgone e ripercorriamo a ritroso le strade che abbiamo fatto per scendere.

Nonostante sia domenica il traffico è incredibile e arriviamo ad Addis Abeba che è ormai scesa la sera. Non credo di aver mai visto incroci così intrecciati di macchine, come non mi capacito del come, in altri incroci, senza semaforo, riescano a partire quando è il loro turno, con un ordine che solo chi è al volante capisce.

Oltre alle macchine miriadi di persone che attraversano, camminano contro il senso di marcia, o, in mezzo alla strada, chiedono l’elemosina.

Una ragazza con un bimbo sulla schiena si avvicina e Gadisa come molte di queste persone usino i bambini come attrazione, per raccogliere più denaro. Ci racconta di quante volte propone a queste donne di poterle aiutare; di poter garantire ai bambini un posto sicuro, cibo, vestiti, un’istruzione, una casa, eppure loro non accettano.

Arriviamo finalmente nella vietta che porta al nostro compound. Sentiamo aria di casa.

Worke, la nostra magnifica cuoca ci aspetta con una delle sue mitiche minestre.

Domani è tempo di ultimi acquisti, di saluti, di lasciare questo luogo che ci ha ospitato.

Il cielo è nuvoloso, la luna si nasconde, ma i suoni della notte etiope sono sempre presenti.

GIORNO 16: Arriva il tempo di tornare a casa

Gadisa arriva subito dopo la colazione. Ci sediamo sui comodi divani colorati della guesthouse e facciamo un piccolo resoconto dei nostri giorni qui.

Gadisa ci ringrazia, a nome suo e di tutte le persone con cui siamo venute a contatto e ci chiede di raccontare le nostre impressioni, i nostri consigli, le nostre emozioni.

In questi quindici giorni le emozioni sono state tante, diverse, profonde.

Sicuramente ce ne andiamo con un modo nuovo di vedere la povertà, ma anche l’amore, la speranza, la felicità.

Perché alle volte la felicità è un solo pezzo di sapone!

E allora rimettiamo in discussione tutto ciò che ci serve, nel nostro mondo, per essere felici. E ci rendiamo conto quanto spesso, la nostra felicità dipenda, in fondo, da cose futili.

Dopo la chiacchierata Gadisa ci accompagna a fare le ultime spese, poi nel pomeriggio andiamo a salutare i ragazzi.

I saluti mi fanno spesso commuovere. È una pagina che si chiude, eppure rimane legata, insieme alle altre, al libro della nostra vita.

Girare quella pagina è spesso difficile, perché non conosciamo cosa ci sarà dietro e quell’ignoto è tra le paure più profonde che abbiamo.

Alice, al posto delle parole, lascia un disegno che racconta di prospettive diverse. È un assist perfetto per Gadisa che spiega ai ragazzi quanto la capacità di avere nuove prospettive modifica il risultato di ciò che facciamo.

Per spiegare la prospettiva riprende la storia di Davide e Golia. Golia, da parte sua, grande e grosso non temeva certo Davide, eppure Davide aveva una certezza: se Golia era tanto grande, non poteva certo mancare il bersaglio. E così fu.

Nell’abbracciare i ragazzi i nostri cuori ricordano loro quanto sono forti, cosa hanno passato e come sono cambiati e come ogni giorno si impegnano per modificare la loro prospettiva.

Con gli occhi umidi usciamo dal Centro. Le strade polverose si illuminano di luci, la sera cade improvvisa. Il contrasto tra ombra e luce rende i colori ancora più vivaci, più vividi.

Sarà per questo che dove la povertà è il quotidiano, ogni piccola luce, ogni piccola azione, ogni piccolo successo, è una piccola meraviglia che scalda il cuore e alimenta la fiamma della fede, della speranza, dell’amore.

Fede, Speranza e Amore sono i valori che guidano Gadisa ed il Centro Testimony.

Buon lavoro, ragazzi, noi continuiamo a sostenervi anche da lontano!

 

APPROFONDIMENTI:

Rastafarianesimo

Una storia incredibile, che non conoscevo minimamente e casualmente riprende il libro che sto leggendo sui racconti dell’ultimo re Etiope è quella sul rastafarianesimo.

Ras è un prefisso che significa Sir, Mr, e sta davanti al nome di nascita Tafari. Quando venne battezzato, secondo il rito ortodosso gli viene cambiato il nome in Hailè Salassiè.

È lui che diventa l’ultimo imperatore Etiope e si propone come il Re dei Re, direttamente discendente da Davide e da Salomone.

In veste di imperatore ha una moderna visione dello Stato; grazie a lui nasce l’università, in città iniziano i lavori per una lenta  modernizzazione, introduce le banche e sovvenziona a giovani studenti, lo studio all’estero, affinché portino in Etiopia la modernità, la tecnologia, il progresso.

Parla fluentemente Amarico, Oromo, Inglese, Francese, Arabo, ma quando è a contatto con i governanti delle altre nazioni, parla la lingua della sua Patria, per mantenere il suo potere.

È lui che per primo crea l’Africa Union riconoscendo un nuovo valore ai popoli africani.

È molto stimato All’estero ed inizia ad essere riconosciuto come leader spirituale da molte persone.

Quando, al suo arrivo, in una Jamaica oppressa dalla siccità da anni, iniziò a piovere, in molti gridarono al miracolo e da allora divenne la figura spirituale di riferimento del Paese.

Alcuni Jamaicani lo vollero seguire in Etiopia e lui regalò loro un pezzo di terra cui diedero il nome di: Shashamane

L’Etiopia divenne la nuova Gerusalemme, la terra promessa dei rastafariani.

Lo stesso Bob Marley, si dice, riprese nei suoi testi, interi discorsi di Hailè Salassiè, per la profonda stima che ne aveva.

Curioso che da una parte questo imperatore veniva riconosciuto come il nuovo messia, mentre all’interno della sua Etiopia, la modernità, il progresso, la tecnologia toccassero solo una piccola cerchia di persone attorno all’imperatore, mentre il popolo non aveva nessuna guida e nessun aiuto.

Mentre i Rastafariani parlavano di condivisione e di accoglienza, Hailè Salassiè, alla nascita Rastafari, viveva nella bambagia, organizzando feste ultra milionarie nel suo palazzo, mentre fuori, gli Etiopi, morivano di fame.

Gadaa System

In Etiopia ci son più di 83 gruppi etnici: l’Oromo è il gruppo più grande con i suoi 60 milioni di abitanti.

È qui che è nata la più antica forma di democrazia del mondo: l’Abbaa Gadaa

Da pochi anni, anche nelle scuole viene insegnato il sistema Gadaa, con e sue regole, attuali ancora oggi in alcune tribù più remote.

Nel Gadaa System c’è una gerarchia legata alle età:

Nei primi 8 anni di vita i bambini ricevono un tipo particolare di educazione fondata sull’amore e sul rispetto valida per maschi e femmine. Insegnano che non c’è differenza fra uomini e donne.

Tra gli 8 ed i 16 anni c’è il dono di un vitellino che loro incrementano in modo che quando sono grandi hanno i loro animali. Piccole responsabilità per aiutare la famiglia nella vita e nel mantenimento degli animali.

Nella terza Gerarchia, dai 17 ai 24 anni, i ragazzi sono chiamati al nomadismo per trovare un buon pascolo per il bestiame: imparano  a conoscere il territorio durante i monsoni. imparano diverse tecniche di cavalcata dei cavalli e come usarli per il trasporto. Le ragazze aiutano le mamme, si occupano del cibo e mantengono il villaggio

Nella quarta Gerarchia dai 25 ai 34 anni c’è una specializzazione di quello che hanno imparato fino ad allora.

Nella quinta Gerarchia, dai 35 ai 40 anni, sono pronti per sposarsi e far fronte alle proprie responsabilità verso una famiglia.

Il marito diventa anche il padre della sposa. Quando un uomo chiede in sposa una donna il padre chiede quante lance ha perché vuol sapere se è in grado a provvedere per lei e per i bambini che avranno. Non ci sono pari diritti ma pari rispetto nei rispettivi ruoli. I bambini che nasceranno ripeteranno la stessa formazione dei genitori.

Un uomo, per essere eletto Abbaa Gadaa deve essere controllato nella sua crescita. Se non ha una pronuncia perfetta non può essere capo, il suo parlare deve essere sicuro e convincente, deve siete comunicate bene.

Nel Gadaa system nessun può essere povero. Se una famiglia ha molte capre ne deve dare una a chi non ne ha abbastanza. Hanno una sorta di gruppo specializzato in caso di incidenti o eventi naturali straordinari.

Se un uomo abusa di una ragazza deve dare sette mucche alla famiglia della ragazza.

Un uomo non può attraversare un fiume davanti ad una donna ma deve essere dietro per poterla aiutare in caso di pericolo. all’interno del sistema Gadaa vive il sistema SINKE che comprende una serie di leggi unicamente per il rispetto delle donne. Il suo simbolo è un lungo bastone sottile e la donna che lo porta è considerata la Madre Terra

 

PER INFO SUL TESTIMONY CENTER: www.testimony2540.org

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Scritto da Heidi Zorzi

Diventare Mental Coach, mi ha aiutato a comunicare con i miei figli, con i miei allievi, in modo sempre più chiaro ed efficace, e aiuta loro a sviluppare autostima, motivazione, consapevolezza, che sono condizioni importanti sia nello sport, sia, soprattutto, nella vita.

6 Nov, 2024

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2 Commenti

  1. paolo

    Bellissima, la tua ennesima lezione di vita, Heidi.
    Grazie di cuore.paolo

    Rispondi

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